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OUBLIE MOI Film con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggio
  Stampa questa scheda Data della recensione: 31 gennaio 1995
 
di Noemie Lvovsky, con Valeria Bruni Tedeschi, Laurent Grevill, Emmanuel Salinger, Philippe Torreton (Francia, 1994)
 
Valeria Bruni Tedeschi
Questo "dimenticami" che meglio andrebbe tradotto in "lasciami perdere" avrebbe potuto essere il solito filmetto agrodolce ad uso e consumo adolescenziale, ovvero semi demenziale, ovvero quello che i programmatori TV intendono essere il livello degli spettatori del famigerato prime time, digestivo delle venti e trenta per nipotini ipnotici fino agli ultra centenari ancora in grado, si fa per dire, d'intendere.

Avrebbe potuto essere la storia sentimentale di una "deriva": quella di Nathalie che ama Eric che però non l'ama più, che sta con Antoine che invece l'ama ma è lei a non amarlo, che per disperazione tenta di mettersi con Fabrice ma il quale è proprio una frana. Se OUBLIE MOI non è questo genere è un po' per le stesse ragioni per le quali le storielle di un Eric Rohmer lo sono solo sulla carta: ma, tradotte in immagini, si alimentano di quel soffio che finisce spesso per essere poetico.

Non che questa Noemie Lvovsky, bravissima esordiente con questo film incredibilmente controllato ed originale, segua la strada dell'autore di LE RAYON VERT: che è quella di trasformare le sue discrete vicende (con le situazioni, i personaggi, i dialoghi, le parole che le compongono) in costruzioni dalla logica (e quindi dalla grazia) perfetta. Ma la giovane regista segue un cammino parallelo: trasformare la banalità quasi esasperante della sua storia (una giovane parigina che s'intestardisce fino all'isteria a farsi amare) in qualcosa di più astratto, e quindi più eterno, più universale. Come Rohmer, Neomie s'incolla alla parola: fin dall'inizio è un getto continuo di parole, di tentativi di convincere (e solo più tardi di comprendere) ciò che governa il comportamento della sua eroina. Non solo queste parole servono a farci comprendere la psicologia tra il buffo, il commovente e l'indisponente di Nathalie: una che più gli altri la respingono, più lei cerca di scardinare sempre più disperatamente (e pure materialmente) le porte. Una che vuol forzare il mondo, violentare l'istante presente, penetrare il prossimo, prima d'incominciare finalmente a decifrare la propria solitudine.

Ma servono, queste parole, a condurre per mano il film: che nessuno accorgimento della sceneggiatura, nessun punto di riferimento temporale o ambientale serve altrimenti a far progredire drammaticamente. I dialoghi del film - assolutamente perfetti impongono non solo un ritmo, ma un'energia disperata alle immagini. E queste non sono da meno: perfettamente adeguate, mai decorative, mai esplicative, tutte giocate su quei labirinti (treni e corridoi della metropolitana, porte ed ascensori, scale e pianerottoli, appartamenti provvisori) che servono a scostare il film dal sentimentalismo piagnucoloso (o dalla frettolosa conclusione sul "ma quella è matta") per indirizzarlo verso più filosofiche e poetiche mete.

Ovvio che un film del genere non può che costruirsi su di una grande direzione d'attori: Valeria Bruni Tedeschi (anche se alterna i risolini alle intensità espressive che le conosciamo; e che non devono arrischiare di diventare un modo d'uso) si carica di tutta la difficile incertezza di un personaggio tutto in divenire. Ma tutti coloro che le stanno attorno (a cominciare dai tre maschi) compongono un mosaico psicologico e comportamentale ammirevole.


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